Chi lavora nella bar industry da molti anni la colloca dietro il banco del Rita Cocktail Bar di Milano, i più giovani la conoscono come brand ambassador di Fine Spirits.
In ogni caso, è uno dei nomi più noti della miscelazione italiana da ormai molti anni. Stiamo parlando di Chiara Beretta che recensisce locali sui suoi social per passione, quella stessa passione che l’ha spinta tanti anni fa a prendere una strada che non aveva previsto e che ha intrapreso in un momento in cui di donne dietro al banco se ne vedevano pochissime.
Le abbiamo quindi chiesto di parlarci dell’evoluzione del suo percorso professionale, dal momento in cui ha preso coscienza che la miscelazione non sarebbe stato un lavoro per arrotondare ma una strada lunga e complessa, fatta di acquisizione delle competenze fino a quando dal bancone ha fatto il salto al training.
Non vi anticipiamo altro, vi lasciamo alla sua esperienza.
Ciao Chiara, ti andrebbe di spiegarci in breve qual è stato il tuo percorso professionale prima di approdare a Fine Spirits?
Ho avuto un percorso sicuramente atipico. Nel 2009 mi sono laureata in Lettere Moderne, e fino a quel momento pensavo avrei fatto tutt’altro nella vita. Poi mentre studiavo ho cominciato a lavorare in alcuni locali e ad appassionarmi al mondo della miscelazione che in quegli anni stava vivendo una vera rivoluzione. Nel 2010 ho aperto un cocktail bar in Brianza, che oggi sicuramente posso considerare pioniere di quella che sarebbe stata la tendenza nel decennio successivo. Dopo tre anni sono approdata al bancone del Rita di Milano, dove sono rimasta fino al mio arrivo in Fine Spirits.
Quindi qual è il tuo ruolo ora all’interno dell’azienda?
Fine Spirits è un’azienda familiare di piccole dimensioni, e come spesso succede in questi casi ho avuto modo di fare e faccio tutt’ora molte cose. Principalmente mi occupo di supportare la forza vendita nel lavoro sul territorio e con i clienti principali. Ma mi occupo anche di formazione, eventi, marketing e comunicazione.
Non abbiamo ancora parlato del momento della tua vita, professionale e privata, in cui tutto è cambiato, ovvero quando sei diventata madre: quando è successo?
Sono rimasta incinta a inizio 2020, appena prima del periodo Covid. Ero già in Fine Spirits da alcuni anni e sicuramente sapevo che avrei dovuto modificare i miei ritmi. Probabilmente la pandemia mi ha anche un po’ aiutata in questo senso, obbligando tutti, non solo me, ad un periodo di pausa. Ho quindi ripreso, anche se a ritmi leggermente ridotti specialmente per quanto riguarda le trasferte, una volta che la situazione generale si era ristabilita.
E come pensavi sarebbe cambiato il tuo lavoro rispetto a com’è cambiato realmente?
Non si è mai pronti ad un cambio di vita come la maternità. Avevo cercato di non immaginare troppo come sarebbe stato, accettando di vivere giorno per giorno il cambiamento. Inutile dire che la maternità ti sconvolge, ovviamente più di quanto sia possibile prevedere. Sicuramente non avevo previsto di non dormire una notte intera per quasi due anni, e la cosa più difficile è stata cercare di lavorare al meglio a queste condizioni. Poi ci si abitua a tutto, i bambini crescono rapidamente e ora che Oliver ha tre anni posso dire di aver trovato un discreto equilibrio.
Pensi ti abbia penalizzata o in qualche modo abbia influenzato le tue scelte professionali?
Sicuramente non sono più libera di scegliere indipendentemente. I miei ritmi dipendono da quelli della mia famiglia e tutta l’organizzazione è più complessa. La mia generazione non è cresciuta con l’idea di una reale parità dei ruoli, e sicuramente la crescita dei figli pesa ancora molto sulla madre. Sicuramente oggi essere donna e madre non è semplice, e i dati sulla parità di genere in tutti i settori lo confermano.
Parliamo quindi della credibilità che ti sei costruita con gli anni, in particolare sui social: hai iniziato a recensire i locali solo per passione o con uno scopo più ampio e a lungo termine?
Direi per passione e sicuramente lo faccio ancora in quel senso. Non ho mai voluto lavorare come una “influencer”, non ho mai accettato richieste di recensioni. Semplicemente mi trovavo a girare l’Italia e in parte il mondo visitando i migliori locali, e mi è venuto naturale usare la pagina come una sorta di diario. In molti mi chiedono consigli e mi fa sempre piacere rispondere. Per quanto riguarda il lavoro devo dire che mi aiuta molto, Instagram è una sorta di “curriculum”. Inevitabilmente quando cerchiamo delle informazioni su una persona la prima cosa che facciamo è sbirciarne i canali social. Avere una pagina attiva che attesti in qualche modo il mio essere dentro alla bar industry è come una presentazione. Quando viaggio in zone che conosco meno mi può aiutare a dimostrare la mia autorevolezza in materia di bar.
Ti è mai capitato di aver avuto a che fare con gli haters, come spesso accade man mano che cresce il proprio seguito?
Devo dire molto poco, per fortuna. Lavoro sempre in “positivo”, proprio perché non voglio avere problemi. Se un locale non mi piace difficilmente ne scrivo male. Semplicemente non ne scrivo. Ed evito accuratamente di innescare polemiche, anche se so che questo mi porterebbe più visualizzazioni e coinvolgimento. Non è questo lo scopo della pagina.
Al momento il tuo numero di follower ti inquadra come micro influencer – in quella fascia intermedia fra nano e micro – ma qual è l’obiettivo di questo segmento del tuo lavoro?
Penso che dipenda da quale sia l’obiettivo personale di chi sta dietro una pagina. A me serve principalmente per rimanere all’interno di una comunità, seguirne le dinamiche attivamente e partecipare ai suoi movimenti. Non aspiro a grandi numeri, mi piace pensare che sia una fotografia delle mie giornate, o almeno di quello che penso possa interessare a chi mi segue. Ci metto un po’ di vita personale, ma non troppa.
Ti vengono fatte richieste specifiche di visitare questo o quel locale? Se si, come riesci a rimanere imparziale nel giudizio, specie quando conosci le persone che ci lavorano?
Mi succede, ma devo dire in modo discreto. Chiaramente col mio lavoro può essere molto delicato: se visito un bar di un cliente e non mi piace, posso scriverne male? La risposta è no, ma la verità è che magari non ne scrivo proprio. C’è da dire che in tanti anni di viaggi per bar posso dire di essermi trovata davvero male in un locale pochissime volte. E ho la fortuna di lavorare con una fascia di clientela molto alta quindi non mi pongo spesso questo problema. Ho avuto però qualche incidente con un blog dove tracciavo una sorta di mappa dei bar nelle principali città italiane. Se un locale non veniva inserito ricevevo subito qualche lamentela. Dopo qualche incidente diplomatico ho abbandonato il progetto, non senza dispiacere.
Da quando hai iniziato a lavorare dietro il bancone a oggi, come pensi siano cambiate le competenze sia dei baristi che dei clienti nella miscelazione?
Abbiamo vissuto un periodo di grande esplosione, e mi ritengo molto fortunata ad averne fatto parte in prima linea. I primi anni 2010 sono stati incredibili e fare il bartender in un locale prestigioso era davvero un privilegio e un’aspirazione. Oggi non è più così. Sicuramente il livello medio è molto alto, e sono spuntati cocktail bar in ogni città e paese. Il risultato è che non si trova personale, e sempre meno ragazzi sono disposti a lavorare di notte ai ritmi che il mondo del bar richiede. Quindi sicuramente i bartender oggi sono potenzialmente più competenti perché il livello medio si è alzato incredibilmente, ma è più difficile trovare dei veri appassionati. Quello però che è certo è che un giovane che vuole intraprendere questa carriera ha infinite possibilità in più rispetto a quindici anni fa.
In modo più ampio, pensi che oggi il livello di pretese di chi consuma sia più alto? SI può dire che questo corrisponda a un aumento delle competenze di chi sta dietro il banco o non necessariamente?
Si è fatta tanta cultura, da ogni lato del bancone, e i risultati indubbiamente si vedono. C’è anche tanta confusione e in questo specifico momento si comincia a sentire la saturazione di alcune categorie, vedi il gin, dove si soffre il numero esorbitante e insensato di etichette sul mercato. Anche il cliente comincia ad essere un po’ stanco dell’eccesso di proposta, ma è decisamente più preparato e ha più mezzi a disposizione per avere una propria opinione. Quando ero una giovane bartender non c’erano libri di bar tradotti in italiano, i principali autori internazionali venivano venduti solo in inglese. I corsi erano pochissimi e i social erano agli albori. Senza contare che a Milano i cocktail bar erano cinque e i gin in bottigliera tre. Chi voleva imparare e formarsi doveva fare un lavoro di ricerca piuttosto complesso.
Riesci a farmi il nome di una tendenza che pensi sia qui per restare? O che magari non è ancora arrivata ma che farà la differenza nei prossimi anni, così come l’ha fatta il gin negli ultimi 10 anni…
Si parla tanto di agave. Speriamo non segua la strada del gin, anche perché significherebbe distruggere una cultura produttiva. Ma c’è molto interesse. Non credo molto nei no alcohol in Italia, anche se all’estero e specialmente nel nord Europa i distillati analcolici stanno esplodendo. Ma qui da noi siamo già abituati a bere a bassa gradazione, pensiamo all’aperitivo, e non la viviamo come una rivoluzione.
Ci riveli un ricordo legato al tuo lavoro che ti ha segnata, nel bene o nel male? Solo uno però 😊
Mentre studiavo ho cominciato a lavorare in una birreria. Facevamo qualche cocktail e avevo capito che si poteva fare decisamente di meglio. Ho cominciato a seguire dei corsi, e a cercare un lavoro che mi facesse crescere. Un’estate ho lasciato il mio magro cv a tutti i bar della Lombardia. Molti mi hanno detto che non assumevano ragazze. A quel punto il mio diventare una bartender era diventata una questione di principio. Dovevo dimostrargli che sbagliavano. Anni dopo alcuni di questi mi hanno chiesto di fare formazione al proprio personale. E sono stata la prima donna dietro al bancone del Rita.
Siamo certi che di aneddoti legati alla sua vita da bartender Chiara ne avrebbe molti altri, ma si è già donata molto a RGlife, quindi la ringraziamo tanto per questo.
Alla prossima intervista con i professionisti della miscelazione!