Tu che sei uno dei più conosciuti giornalisti del settore professionale del bar, ed esperto di cocktail e miscelazione e che per professione hai girato tutto il mondo, visitato i migliori locali di ogni nazione e intervistato tutti i più grandi barman a livello internazionale…. Come la vedi? Intendo dire, secondo te l’Italia come se la passa? Che tipo di immagine hanno oggi i barman italiani nel mondo?
Il 14 novembre ho moderato al Summit Ho.Re.Ca. Imprese fuori casa un dibattito sul tema Cocktail all’italiana. Con me c'erano anche Giuseppe Gallo e Luca Cordiglieri del China Tang del Dorchester Hotel di Londra (Best Bar Manager 2011) due barman italiani che all’estero sono celebri come rockstar. Abbiamo analizzato, attraverso una carrellata di video-testimonianze, il processo d’italianizzazione del cocktail. Nel mondo, non solo siamo famosi, ma abbiamo fatto scuola. La conferma viene anche gli opinion leader. Tutti d’accordo, dal saggio Gary Regan al campionissimo Erik Lorincz, da “The Maestro” Calabrese al “The King” Dale DeGroff, sul boom del nostro movimento. I guru sottolineano la grande crescita avvenuta in Italia, sia in termini di preparazioni sia in termini di accoglienza. Un vero boom, specie negli ultimi dieci anni. Sto pensando alla faccia di quelli che dicono che un tempo si stava, e si beveva, meglio.
So che hai una particolare conoscenza del mondo dei cocktail bar e locali notturni anche da un punto di vista architettonico e d’immagine. Quale è la nuova tendenza? Cosa non deve trascurare oggi chi volesse aprire un locale sotto il profilo dell’immagine?
Se hai davvero una storia da raccontare il tuo locale funzionerà. Altrimenti, anche se te l’ha firmato un archistar, sarà un posto fragile come un gigante d’argilla. La dimensione esperienziale è l’unica che conta. Puoi mettere in piedi una bocciofila, un luxury lounge, uno speakeasy o una taverna per artisti. Non importa la categoria. Quel che conta è che quel tema sia nelle tue corde. Solo così potrai svolgerlo in modo coerente e disciplinato.
E a seguito di questa domanda ti chiedo anche, secondo te è ancora possibile sopravvivere solo del proprio talento di barman, il passaparola sulla qualità professionale è ancora vincente o comunque è necessario trovare un compromesso anche con ciò che va di moda, con il look e con l’essere up to date? Insomma il riservato bartender raffinato, ha ancora spazio nel mondo del “tutto fa spettacolo?”
Vale la risposta di prima. Scegli uno stile, studia, coltivalo fino a farlo emergere. Non guardare al tuo vicino. O almeno prendi quello che ti serve e poi scarta il superfluo. Per quanto riguarda l’immagine giacca, gilet o maglietta dei Sex Pistols, chi se ne frega. L’importante è che l’aspetto sia coordinato col posto di lavoro. Che sia una cosa unica col locale che rappresenti. Ti vestiresti da ballerino di samba in un pub irlandese? Forse dopo la quinta pinta.
Negli ultimi anni assistiamo ad una devastante apertura di bar e locali gestiti da persone prive di qualsiasi esperienze e mestiere che di certo bene non fanno al settore. A tuo avviso, ce li dobbiamo tenere così o si potrebbe intervenire in qualche maniera per garantire un livello minimo di professionalità?
Patente. Ci vorrebbe la patente per servire. E non è una questione di dare la mazzetta, come sostengono alcuni, a questo o quell’altra scuola di formazione, ma di garantire un minimo di rigore e di regole. L’alcol deve essere manipolato con estrema cura e servito da gente con la testa sulle spalle. Una decina d’anni fa andavo sempre in un bar, lui era bravo a mescolare, per il resto un cane randagio. Una volta cercò di convincermi che un tizio paonazzo, sdraiato per terra a un metro dal mio tavolino, si fosse ubriacato in un altro bar. Disse che non era un problema suo e lo prese a calci. Avrei voluto fare altrettanto con lui, intendo il barman, ma alla fine mi rivolsi direttamente alle forze dell’ordine.
Senza fare nomi di persone o di locali, se non vuoi, ma quali sono secondo te gli esempi da seguire, ci sono delle scuole, dei gruppi, dei singoli bartender da cui tutti dovrebbero imparare?
La Bar University per la gestione, il marketing e le tecniche di vendita; i guru di bartender.it per l’innovazione; il Jerry Thomas Project di Roma per la ricerca; il Classic Cocktail Club per il recupero storico e l’Aibes per la sua attività di formazione professionale. Se fossi un barman sarei ghiotto di tutte queste opportunità.
Secondo il tuo punto di vista quali sono le città italiane ed internazionali che meglio di altre hanno capito l’importanza di tenere viva una città anche attraverso la vita dei locali serali e notturni?
A Milano, la mia città, ho sempre trovato ottime proposte. Tra gli addetti ai lavori credo di essere rimasto l’ultimo sostenitore dell’aperitivo cosiddetto alla milanese, quello con buffet. Oggi lo criticano tutti, compreso l’imprenditore Vinicio Valdo che l’ha inventato, ma nessuno mi toglierà dalla testa che sia stato il miglior volano d’affari degli ultimi anni e che abbia contribuito alla diffusione della moda dei cocktail nei locali italiani. Prima i giovani preferivano il pub, anche perché andare nei cocktail bar costava troppo ed era roba da matusa. Poi con l’arrivo dell’aperitivo con buffet, era la metà degli anni Novanta, c’è stato un vero boom di aperture e di rilanci di cocktail bar. All’estero? Nell’ordine i miei bar di riferimento si trovano a Londra, San Francisco, New York, New Orleans, Berlino, Parigi, Barcellona, Melbourne, Singapore.
Quale è la tua opinione sul concetto di bere consapevole? Come si può intervenire positivamente in questo delicato problema, senza diventare stupidamente moralisti e bacchettoni?
Andiamo oltre allo spot del bere responsabile. Puntiamo di più sull’idea del servizio responsabile. Sarebbe una rivoluzione copernicana. Ti rendi conto che nessun grosso gruppo ha investito su una campagna di sensibilizzazione rivolta al servizio? Sempre e solo azioni sui consumatori finali. Si fanno appelli a chi beve, non ai barman. Andrebbero curati entrambi.
In base alla tua approfondita esperienza il bravo barman/bartender è quello che…?
È quello che sa intrattenere, ma che non annoia con troppe chiacchiere. È un gentleman, fa il baciamano alle signore che siedono al banco, conosce il valore del gesto. Evita, per esempio, di assaggiare il drink con la cannuccia prima di servirlo. La trovo una pessima abitudine d’importazione estera. Non è una questione d’immagine, ma di stile. Lo ribadisco: non importa se uno indossa la giacca di gala o se ha rubato il guardaroba a Lady Gaga. L’importante è che lo faccia con classe. Un maestro come Peter Dorelli ha dipinto uno dei migliori ritratti del barman ideale. Lo ha descritto come un professionista che ha sensibilità, intuito ed è capace di interpretare il body language. Il buon barman deve sempre capire se di fronte ha uno che ha solo voglia di bere o anche di chiacchierare. E soprattutto non si deve montare la testa.
In Italia in quanto a scuole ed associazioni siamo allineati con il meglio d’Europa e del mondo ? Cosa ne pensi delle migliaia di corsi per barman che si tengono in Italia. Quali sono i requisiti per capire se si tratta di una scuola di formazione accreditata e utile?
Quello che mi sconcerta è il numero impressionante di corsi e scuole di flair. Spuntano come funghi. Una domanda di lavoro eccessiva se si considera la pochezza dell’offerta. A Roma mi parlano di una trentina di scuole per barman freestyle. Ragazzi, tutto ‘sto lavoro non c’è. Occhio a non farvi abbindolare dal primo che passa. Investite con accuratezza nel futuro.
Cosa c’è secondo te che si dovrebbe fare per sviluppare al meglio il settore del f&b e che invece non viene fatto?
Rispondo con le parole di Angus Winchester. Durante un’intervista mi ha detto: “Il mondo del bar è cambiato radicalmente rispetto ai miei inizi. Al tempo nei locali si usavano un paio di gin, ora nella bottigliera ne trovi duecento”. Fossi un barman non mi lamenterei. Sul mercato c’è una scelta senza precedenti di prodotti. Ci sono eccellenze, spiriti premium, che un tempo semplicemente non esistevano. Le aziende del settore stanno comprendendo il ruolo chiave dei brand ambassador. Barman, spesso famosi, che parlano ad altri barman di un prodotto e gli spiegano come sfruttarne le potenzialità e quindi venderlo. In più stanno proliferando i bar show dove si fa formazione.
C’è qualche idea di marketing da applicare ad una scuola o ad un locale che hai trovato in altre parti del mondo e che non hai ancora visto in Italia che secondo te potrebbe dare impulso positivo alla categoria?
Tante e nessuna. La vera abilità sta nel prendere le cose migliori dall’estero e adattarle alla nostra realtà. Non tutto è replicabile. Su Bargiornale ci occupiamo spesso di locali esteri. Cerchiamo di selezionare i concept migliori ai quali ispirarsi. Ma la fotocopia, il clone, non può funzionare. L’anima locale prevale ancora.
C’è un cocktail bar o un locale dove hai bevuto meglio in assoluto o che ti ha colpito per altri motivi più di ogni altro locale?
Mi stai chiedendo di dirti a quale dei miei fratelli voglio più bene?
C’è qualcosa in particolare che vuoi comunicare a chi ci legge e che magari sta pensando di aprire un locale?
Siate originali e non abbiate paura di volare alto, ma prima fate un serio business plan.
Con tutta l’esperienza che hai, tutte le conoscenze che possiedi in questo ambiente, tutte le amicizie…. Non ti è mai venuta voglia di avere un tuo locale?
Preferisco fare il mio mestiere. A ognuno il suo. Adoro scrivere dei bar e dei suoi attori e attrici. È una passione che mi ha trasmesso Franco Zingales, grande giornalista e maestro di vita. È lui che, tra tutti i giornalismi possibili, mi ha trasferito la passione per il “bargiornalismo”.
Se qualcuno avesse piacere di approfondire qualche argomento con te, oltre attraverso questo blog, sei raggiungibile attraverso social network, redazione di Bargiornale od altro?
Sono su Facebook alla voce Stefano Nincevich o all’indirizzo stefano.nincevich@ilsole24ore.com
Intervista a cura di Monica Palla
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