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A timeless Barcelona

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Dicono che fare ciò che si ama nella vita renda inconsistente la parola ‘lavoro’, perché ci si ritrova a non lavorare davvero, ma a vivere la propria passione. Finché non si prova questa esperienza, non la si può capire, ma forse è proprio ciò che è capitato a me e a mio padre durante la nostra trasferta spagnola lo scorso giugno.

Di giorno per aziende, di sera per locali, a vivere qualcosa di diverso dalla Milano alla quale siamo abituati, a scoprire i sapori di Barcellona, portandoci dietro per la città l’unica cosa che ricerchiamo anche qui in Italia: la voglia di bere bene.

Così dopo esserci concessi una bella mangiata di tapas a un orario a dir poco indecente, ma perfettamente calcolato per evitare la confusione serale, ci mettiamo a bivaccare per la città: Barcellona. Giuro di non aver mai sentito dire a nessuno che è una città che non si ama, sarebbe davvero impossibile.

La nostra prima tappa è al Boadas, sulle Rambla, forse più conosciuto per il nome che non per i cocktail. Niente jigger per dosare, niente shaker, solo 2 tumbler dei più classici tenuti insieme per miscelare gli ingredienti. I due barman hanno probabilmente la stessa età del locale e scuotono la testa quando gli viene chiesta la lista: in fondo si può prendere quello che si vuole, non importa consultare nulla. Maestri della mixologist di altri tempi sorridono dai quadri in bianco e nero alle pareti e prima di uscire si viene ovviamente omaggiati dei loro piccoli calendari tascabili. Tornati all’aria aperta ci si sente di lasciare alle spalle un mondo discreto, con luci soffuse di lampade polverose e atmosfera che sa di altri tempi, come in un romanzo di Zafon.

Indecisi sul da farsi, decidiamo di dirigerci al raffinato Dry, locale classico e senza tempo. Dietro al banco il barman dallo smoking bianco come i suoi baffi, e a gironzolargli attorno i suoi ragazzi che servono ai tavoli o preparano nel retro del bar qualunque altro cocktail, a base Gin ovviamente, che però non sia Martini. Il Martini è l’unico preparato al banco, dove tutto è sistemato in modo che in un paio di mosse sia pronto. Dietro al banco, pile di libri di Javier De Las Muelas, un antico registratore di cassa e sullo specchio stampata la ricetta del drink: ‘Dry Martini, original recipe: ½ London Dry Gin, ½ French Vermouth, 1 dash orange bitters, squeeze lemonrind, add a green olive’. Esattamente sopra la porta che da sul retro il tabellone elettronico segna il numero di Martini fatti dal 1977 in poi, e fino a quel momento la cifra è pari a 1.040.938.

Dopo essere stati in questo tempio del Gin, decidiamo che è giunto il momento di rincasare e ci promettiamo di dedicare altro tempo ai locali la sera successiva, quando effettivamente ci liberiamo dagli impegni fin troppo presto, tanto presto che la Cocteleria Negroni è ancora chiusa. E allora si va a cena, prima che si accenda la famosa ‘lampadina’ sul da farsi e allora la serata prende senso: la destinazione è l’Ohla Boutique Bar.

Appena entrati in hotel, ci facciamo intimorire dall’ambiente ma la sensazione dura giusto il tempo di mettere piede al bar e vedere dietro il banco il nostro italianissimo Giuseppe Santamaria che intrattiene gli ospiti al banco e intanto prepara i cocktail con una maestria derivata da anni di esperienza.

Ci accomodiamo di fianco a una coppia di americani, di fronte a Giuseppe, e scopriamo così che il marito è in realtà italiano ma non riesce quasi più a parlare la lingua originaria perché vive ormai da troppo tempo con la moglie a San Francisco, dove sono spesso ospiti di Julio Bermejo, visto che la signora è stata sua maestra. Quant’è piccolo il mondo! È così che tutti e cinque ci mettiamo a parlare di drink, del piacere del bere, di quanto sia difficile stare in Italia se si vuol crescere nella mixologist. Le conversazioni si interrompono solo quando Giuseppe lavora, perché starlo a guardare è un vero piacere: il nostro primo giro è a base di un cocktail presentato quasi fosse un vasetto di marmellata per me, mentre per mio padre una rivisitazione di Daiquiri. Impossibile aver voglia di andarsene, quindi a bicchiere vuoto, si fa un altro giro. La lista non la vogliamo vedere solo perché creerebbe disagio dover scegliere fra tanti ottimi drink, così il nostro ormai barman di fiducia mi propone un drink con top di camomilla e grammofono che suona una dolce ninna nanna abbinato, con un lieve fumo che esce dal suo cassetto e profuma anch’esso di camomilla: è così che penso che ho ormai trovato la pace dei sensi; mio padre nel frattempo sorseggia chissà quale meraviglia da una piccola coppa ornata di foglie di basilico, mentre parla di quanto è bella Barcellona e quanto è meravigliosa l’Italia con quelli che ormai sono diventati anche amici nostri, gli americani di San Francisco.

Per quanto sorseggiamo lentamente e cerchiamo di trattenerci di più parlando dell’esperienza di Giuseppe a World Class due anni prima, anche il secondo bicchiere si svuota e tocca davvero alzarci. Foto col barman, promessa di passare, prima o poi, a San Francisco, ma quando si esce è la cruda realtà di dover prender la metro che ci assale. Una cruda realtà addolcita dalla consapevolezza di essere in una meravigliosa città come Barcellona, che avrà sicuramente tanto altro da offrire anche alla nostra prossima visita.