| In the kitchen

Winning bets: Lorenzo Cogo

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Fortunatamente sono sempre in anticipo agli appuntamenti, fa parte del carattere , visto che non mi piace collezionare brutte figure e oggi è indispensabile evitarle, visto che ho l’occasione di rivolgere qualche domanda al più giovane chef stellato d’Italia, Lorenzo Cogo, che raggiungo in Rinascente a Milano, dove terrà la presentazione di una nuova linea di padelle di design. Ci troviamo al settimo piano del megastore, dove lo trovo affiancato dalle ragazze dell’ufficio stampa con cui ho preso appuntamento. Non so cosa aspettarmi, visto che di Lorenzo ho sempre e solo letto e sentito parlare ma non l’ho mai conosciuto, mi rincuoro però sperando che mi riservi la stessa gentilezza che le sue collaboratrici mi hanno sempre mostrato: non sbaglio.

Già al primo approccio mi rendo conto che Lorenzo è un ragazzo normalissimo, che si comporta esattamente per l’età che ha (classe 1986) e non soffre della sindrome di onnipotenza di molti colleghi che definendosi ‘chef’ gonfiano il petto e sfoderano le loro esperienze come fossero armi. Ed è proprio da qui che parto, dai suoi trascorsi, che nonostante la giovane età ha già collezionato in gran quantità.

 

Molto si è detto riguardo alle tue esperienze in tutto il mondo, ma quello che vorrei fare oggi è ripercorrere i singoli passaggi della tua crescita professionale, per capire cosa ti ha lasciato ognuna.

Partirei dalla ‘Locanda di Piero’ di Renato Rizzardi. Siamo praticamente all’inizio, ma io ritengo sia comunque importante, visto che quasi tutti dimenticano la tua parentesi italiana prima di volare in Australia.

 

Si, diciamo che alla Locanda ho acquisito le basi sulla pasta e il pane, ma è stata un’esperienza importante soprattutto perché mi ha ridato lo stimolo per continuare sulla strada della cucina, visto che è stato dato valore alle mie potenzialità.

 

Dopo l’Italia c’è stata Melbourne, al Vue de Monde di Shannon Bennet, ma anche Sidney con Mark Best al suo Marque Restaurant, e infine il Tetsuya’s e il Quay.

 

Con loro ho avuto il primo vero approccio alla cucina internazionale. Sono state esperienze molto interessanti, mi hanno aperto gli orizzonti, visto che il livello di internazionalità della loro cucina ancora non era presente qui in Italia. In Australia lo sviluppo era molto veloce ma allo stesso tempo il livello di preparazione degli chef molto alto.

 

Dopo l’Australia, ti sei spostato in Inghilterra, al Fat Duck di Heston Blumenthal.

 

Qui ho capito cosa fosse il molecolare: una cucina che si basa sul gioco e la scoperta, un’espressione che diverte e stupisce.

 

Visto che siamo inciampati sulla cucina molecolare, non posso non chiedergli cosa ne pensa.

 

C’è stato davvero un periodo in cui non si parlava d’altro, se ne abusava, ma io credo che se fatta con la giusta conoscenza e moderazione sia interessante e divertente. Ricordo una volta in cui mi hanno presentato un piatto con due gelatine, una arancione all’arancia e una gialla alla barbabietola: insieme al piatto mi era stata offerta l’indicazione su come gustarle, partendo dalla gialla. Inizialmente ne percepisci solo il colore e una volta che assaggi ti rendi conto del gusto e del fatto che quello che ti aspettavi non combacia col sapore reale. In questo senso è un’esperienza molto diversa e, come dicevo, basata sul gioco, ma la mia cucina è molto più concreta.

 

Così, dopo l’Inghilterra, sei tornato in Oriente, ma stavolta in Giappone, da Seji Yamamoto, che secondo alcuni è stato il momento della svolta.

 

In effetti è così! Il bisogno di andare in Oriente e conoscerlo l’ho sempre coltivato, fin da bambino, come qualcosa di inconscio: per me è stato da subito come una seconda casa. Per quanto riguarda la cucina, ne sono rimasto affascinato, è davvero strepitosa, e Yamamoto è riuscito a trasmettermi il rigore e la passione per questo lavoro.

 

Arriviamo finalmente a Victor Arguinzoniz, ad Axpe, e al suo ristorante Extebarri. Non è più una novità che tu nutra profonda ammirazione per lui.

 

Per me Victor è come un padre, c’è una profonda stima reciproca fra di noi. Ho la avuto la fortuna che in tutti i posti dove ho lavorato mi abbiano sempre dato molto spazio per esprimermi, abbiano creduto in me e io abbia ricambiato questa possibilità con molto impegno, ma mai sono riuscito ad avere un rapporto d’affetto come con lui, quel clima di familiarità nel lavoro che mi mancava dalle mie esperienze precedenti. Victor è una persona semplice che porta avanti un grande ristorante, mi ha fatto capire l’importanza della materia prima e la sua tecnica, quella della cucina alla brace, è diventata la strada che ho voluto continuare a perseguire.

 

Sembra che ne abbia parlato mille volte, ma da come lo fa, percepisco che non si stanca mai di ripeterlo perché il rispetto e l’affetto sono assolutamente sentiti.

 

Dopo alcuni viaggi arrivi poi al Noma di Copenaghen di René Redzepi.

 

In realtà quella al Noma è stata un’esperienza piuttosto breve, ma mi ha aiutato ad approfondire gli aspetti della cucina nordica e, come al Fat Duck, il diverso modo di gestire un ristorante rispetto ad altre parti del mondo.

 

Certo sono esperienze forti e molto diverse tra loro! Una scelta davvero innovativa la tua rispetto a quella dei colleghi italiani, visto che molti qui sono figli della scuola di Marchesi e quindi dei maestri francesi. Si può parlare della tua come di una sfida?

 

La scelta è stata completamente mia e ne sono orgoglioso. La cucina che ho incontrato viaggiando è molto diversa da quella francese alla quale siamo abituati. Certo, è impossibile prescindere dai suoi insegnamenti ma fuori dall’Italia e dalla Francia c’è un approccio più professionale alla cucina: qui il rigore è più per l’etichetta, per l’apparenza, mentre nel resto del mondo il rigore serve per far bene e migliorare.

 

L’apertura del tuo ristorante, El Coq, è più l’inizio di un percorso che non la fine. Forse anche tu ora hai iniziato a insegnare a tua volta e stai portando avanti il tuo personale percorso di crescita. Cosa ne pensi?

 

Ogni giorno è per me una sfida per far meglio, per tentare anche l’impossibile se serve a trovare il giusto equilibrio per continuare a crescere. Io punto soprattutto alla qualità ed è qualcosa da cui non si può prescindere. Oltre a questo lavoro quotidiano, stiamo anche pensando a un laboratorio di sperimentazione all’interno del ristorante per la nascita di corsi privati.

 

Sei spesso chiamato a presenziare a fiere del settore: oggi presenterai qui in Rinascente una nuova linea di padelle in collaborazione al designer Angelo Di Porto. Essere spesso in giro per eventi porta via spazio al tuo lavoro al ristorante o riesci a gestire tutto senza problemi?

 

Oggi è un evento un po’ particolare, visto che ci troviamo in un centro commerciale, ma sarà interessante, e poi mi ricorda i tempi in cui lavoravo con Aldo Coppola: è strano essere qui ora che lui non c’è più. Per quanto riguarda l’essere sempre in giro, ci sono ovviamente i pro e i contro. La cosa più importante è avere un giusto staff che supporti il tuo lavoro. Partecipare alle manifestazioni serve per farsi conoscere, è uno stimolo per migliorare, però purtroppo mi impedisce di essere sempre presente al ristorante e non sempre è facile gestire questa assenza.

 

Quanto è importante essere affiancato da personale competente in cucina?

 

È fin troppo difficile trovare una valida equipe e penso sia un tasto dolente un po’ per tutti i ristoratori in questo momento. All’estero non è così: se un ristorante è valido e ottiene riconoscimenti può crescere, la gente è motivata a rimanere e a migliorare, invece in Italia questo non importa, non si riesce a trasmettere unità e tutto ciò crea difficoltà nel lavoro ma anche nella gestione, visto che investire nelle persone sbagliate è una grossa perdita di tempo, oltre che di risorse.

 

La stella Michelin è per te un peso con cui vieni etichettato o un vantaggio?

 

Ricevere la stella è stata una vera fortuna, un riconoscimento estremamente positivo, visto che ci ha permesso di sopravvivere e investire ancora. Purtroppo l’Italia è un territorio che vive ormai più di etichette che non di crescita reale, si parla sempre di cultura ma la nostra è una cultura di facciata e non si crede abbastanza in chi lavora sodo tentando di migliorarsi. El Coq non vuole essere d’intralcio alla mia zona, non vogliamo dare fastidio come molti credono, ma anzi aiutare il territorio a farsi conoscere e progredire.

 

Investire nel vicentino, lontano da grosse città di riferimento, poteva essere un rischio.

 

Sono fiero della mia scelta e sono consapevole che non è stata la più semplice ma ci ho sempre creduto. Il nome del ristorante crescerà col tempo, che è sempre necessario per fare bene, ma è fondamentale che la gente creda in noi.

 

La tua decisione è stata quella di metterti in proprio, ma non tutti alla fine lo fanno.

 

È estremamente soggettiva come scelta e dipende dall’indole. Alcuni continuano, fortunatamente, ad essere dipendenti tutta la vita, altri intraprendono strade che non gli competono, aprendo ristoranti che non sanno gestire, altri ancora sono abbastanza forti anche per guidare. L’importante è che ognuno capisca qual è la decisione migliore da prendere.

 

… e a me sembra proprio che Lorenzo abbia preso la strada giusta.

 

 

 

Foto di Rodolfo Hernandez